La mafia cambia sempre restando se stessa. E oggi “non esiste … – ytali.

La parola chiave del prossimo numero della rivista Arel è Eredità.
Rinnovando una ormai consolidata collaborazione tra le due riviste,
ytali anticipa uno degli articoli contenuti nel numero. Di questa gradita cortesia ringraziamo la direzione e la redazione di Arel.
La Rivista sarà presto disponibile in versione web e a breve arriverà anche la versione cartacea, acquistabile online e nelle librerie Feltrinelli di Milano Duomo e di Largo Argentina a Roma.

QUI l’indice del numero.

Di eredità insostenibili l’Italia ne consegna molte alle nuove generazioni, ma forse quella della cultura dell’illegalità e della criminalità organizzata è una delle ferite più profonde che pesa sul passato, sul presente e sul futuro del nostro Paese. La questione della mafia è stata centrale nel dibattito pubblico degli anni Ottanta e Novanta, quando la mafia era visibile e sfidava lo Stato, mentre oggi è un argomento più complesso proprio perché più anonimo, nascosto. Abbiamo provato ad approfondire questo tema insieme ad Attilio Bolzoni, giornalista che per oltre quarant’anni ha seguito, studiato e raccontato la criminalità mafiosa su la Repubblica e oggi scrive su Domani.

Dalla mafia della violenza e delle bombe degli anni Ottanta e Novanta, alla mafia che torna a inabissarsi, sfugge ai riflettori e si nasconde nelle pieghe della società civile.
Com’è cambiata la mafia nel tempo e com’è oggi?

La mafia se non la cerchi non la trovi. E poi quando la cerchi in campagna è già nei mercati generali e nell’edilizia, quando la cerchi ai mercati generali già organizza il traffico di stupefacenti, quando la persegui per traffico di stupefacenti, già fa finanza. È sempre avanti, evolve. Questo è il primo dato storico. Il secondo è che l’idea che noi tutti abbiamo della mafia è quella di un fenomeno che si manifesta all’esterno con la violenza. La mafia delle armi, delle stragi e delle bombe, di Falcone e Borsellino. Un periodo terribile nella storia del nostro Paese, che va dagli anni Settanta alla prima metà degli anni Novanta. Un’anomalia, una parentesi spaventosa nella storia secolare della mafia. Ma la battaglia contro quella mafia aggressiva, dotata di una struttura militare, lo Stato l’ha vinta. Oggi la mafia si è riappropriata del suo DNA ed è tornata quella di prima, non si manifesta all’esterno con la forza delle armi, ma stringe patti con la borghesia e le professioni, con lo Stato e con l’imprenditoria. Sta tornando sé stessa dopo l’esperienza selvaggia e terroristica dei corleonesi di Totò Rina, che hanno insanguinato l’Italia per conto proprio e per conto terzi.

La traiettoria di Matteo Messina Denaro cosa ci racconta dell’evoluzione della mafia?
Per capire la criminalità mafiosa oggi bisogna comprendere un aspetto chiave. Paradossalmente, dobbiamo ribaltare lo schema classico che vuole i mafiosi in associazione criminale e gli imprenditori, burocrati o politici come concorrenti esterni. Oggi l’associazione è fatta per lo più da burocrati, imprenditori, politici e il concorrente esterno è il mafioso che interviene quando è necessario utilizzare la violenza. Il problema, quindi, non è il potere illegale, perché di fronte a un potere illegale lo Stato vince. Il problema profondo sono i poteri legali che si muovono illegalmente. Matteo Messina Denaro rappresenta il passato, l’ultimo volto di una stagione della mafia che si è conclusa. Non sappiamo nemmeno se fosse ancora il capo di Cosa Nostra o il capo della provincia di Trapani. Io, da giornalista che vive molto il territorio, sono convinto che da anni i veri capimafia di Cosa Nostra trapanese siano altri. In ogni caso, ora è caduto l’alibi. Credo che l’antimafia giudiziaria sia molto indietro da questo punto di vista. Si rifà sempre a Falcone e Borsellino, a una certa stagione dell’antimafia. Una fase in cui è stato costruito un capolavoro di ingegneria giudiziaria, ma la cui grande eredità di saperi oggi viene spesso ridotta a slogan e parole d’ordine portate avanti per inerzia. Molte frange della magistratura riconoscono la mafia solo quando ha le facce sconce dei Rina, dei Bagarella, dei Messina Denaro o dei Casamonica, per fare un altro esempio, e non si accorgono spesso dei personaggi di spicco del malaffare che per anni sono stati al loro fianco in convegni o in altre attività civili e professionali. Non c’è la capacità di leggere le sfumature della mafia, di elaborare un approccio più complesso, c’è molta pigrizia.

Viene da pensare anche al caso Montante di qualche anno fa. Lei sul tema ha scritto un libro importante, Il padrino dell’antimafia, nel 2019.
Parliamo di una persona che era vicepresidente di Confindustria nazionale con delega alla legalità e contemporaneamente era “nel cuore” dei boss di cosa nostra, come lui stesso ebbe a dichiarare. Svolgeva ogni sorta di attività mirata al profitto: truffe, associazione a delinquere, rapporti con i mafiosi. Eppure era diventato il faro dell’antimafia, andava sulle navi della legalità con la signora Falcone e migliaia di studenti, intratteneva rapporti con politici di primo piano, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile.

Una grande impostura. Quel libro ha un limite, manca una riga: il caso Montante inizia il giorno in cui arrestano Bernardo Provenzano. Dopo Rina, Provenzano ha traghettato la mafia verso I inabissamento, in seguito sono spuntati i vari Montante e gli altri, una nuova fase per la mafia, un ritorno alle origini. Ma in questa vicenda c’è da capire una cosa importante: c’è un pezzo di Stato che funziona – tant’è che Montante è stato condannato ed è in galera – e poi c’è un pezzo di Stato che non funziona. Lo Stato non è un blocco unitario, in Italia ha tante facce. Nel caso Montante l’unico che ha pagato per il sistema che lui stesso definiva «architettura perfetta» è stato lui, tanti altri esponenti delle istituzioni e della società civile coinvolti o vanno verso la prescrizione o sono riusciti a evitare i processi. Un po’ come Buzzi per Mafia Capitale o Palamara per lo scandalo nella magistratura, l’Italia ha bisogno di un capro espiatorio per andare avanti, ma è sempre tutto più complesso di così. In questi casi vediamo che c’è uno Stato che investe risorse ed energie per indagare e scoprire, e poi c’è un altro Stato che non fa funzionare la giustizia, la fa ballare e non porta a compimento i processi. Questo è il grande tema di fondo, la giustizia che non fa giustizia.
E di fronte a questa situazione sono ancora attuali gli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata che abbiamo a disposizione? E l’approccio dell’antimafia?
Dal punto di vista normativo, se apriamo il cassetto negli ultimi quarant’anni troviamo solo due strumenti: il 416 bis nel 1982 e il carcere duro nel ’92.
L’ultimo pacchetto di leggi efficaci contro la mafia risale agli anni Novanta, quando alla Direzione affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia c’era il dottor Giovanni Falcone. Da quel ’91/92 non si è mosso nulla. È ovvio che occorrerebbe una revisione delle norme sull’attività antimafia, ma con quale coraggio possiamo chiederla a questo Parlamento? Si è parlato di modifiche al 416 bis, io lascerei davvero perdere.

L’altro grande aspetto nel contrasto alla criminalità mafiosa è quello culturale, e anche qui purtroppo siamo fermi. L’antimafia sociale è ferma al catechismo, per così dire, che vede opposti i buoni e i 245 cattivi, il bene e il male, prevalgono forme di predicazione in cui i buoni vengono lodati, i cattivi condannati, e tutta la massa degli indifferenti, che rappresenta gran parte d’Italia, viene assolta. Ma la vicenda è molto più complessa di così, non ci si può limitare a indicare il bianco e il nero, questo è uno dei grandi limiti della cultura antimafia nel nostro Paese.
Perché la mafia ha un’articolazione complessa. Mentre la criminalità comune ha sempre vissuto ai margini della società ed è sempre stata combattuta dal potere, la criminalità mafiosa ha sempre vissuto dentro la società ed è sempre stata protetta dal potere. Se non si chiariscono alcuni punti chiave, se non si osservano le sfumature, si fa fatica a intervenire sulla cultura. E la politica ha spesso lasciato questo compito difficile nelle mani di figure che non hanno gli strumenti culturali per affrontare la complessità della sfida.

Ma da dove origina la forza della mafia? E come riesce a rigenerare il suo potere nel tempo?
Se oggi tu vai in qualsiasi paese della Sicilia, ancora non c’è lavoro, ancora c’è la fame. La mafia invece ti procura un lavoro, ti sfama, ti dà un modello culturale, sono loro a dirti cosa è bene e cosa è male.
Offre una possibilità di vita meno miserabile di quella alla quale molti sono destinati. In periodo di Covid i capimafia nelle borgate facevano la spesa per i più bisognosi: il welfare dove non arriva lo Stato lo fanno loro. In questi paesi il carabiniere o il finanziere che arrivano da fuori sono visti come un problema. Questa è e rimane la vera origine della forza della mafia. È l’aspetto culturale qui è di nuovo centrale, la mafia siciliana offre un modello preciso. Il mafioso è assassino, trafficante ma ha anche rapporti con la politica e con la società civile, ha intorno a sé un universo di relazioni, ha una cultura politica molto raffinata anche se spesso è un ignorante. E posso fare un esempio per spiegare questa dinamica. Prendiamo il caso dei sequestri di persona. In Sicilia sono vietatissimi da sempre, perché creano allarme sociale, portano più forze dell’ordine sui territori, complicano la vita a chi svolge attività mafiose. Sono considerati un reato odioso, che mette il mafioso contro la gente.

Solo i corleonesi, che erano degli sbandati, un’anomalia, li organizzavano. La mafia non li concepisce, perché influiscono sul rapporto con la gente. La vera forza della mafia è la sua capacità di conservare sul territorio il suo modello culturale sfruttando le mancanze dello Stato.
Parlando di eredità insostenibili, come si tramanda la cultura mafiosa?
Siamo negli anni Settanta, e Luciano Liggio, noto mafioso corleonese, disse:
Io ho letto tutto, Dickens, l’Odissea, i classici greci, ma quello che mi piace di più è Socrate, perché anch’io, come lui, non ho mai scritto niente.
La cultura mafiosa per almeno tre secoli si è tramandata oralmente, di bocca in bocca. La trasmissione del sapere e del potere mafioso avviene a voce. Vi sono però almeno due importanti eccezioni. La prima, Leonardo Messina, un capomandamento importante che nel ’92 si pente, racconta. Parla di una “bibbia” della mafia, un documento scritto sepolto nelle campagne tra Riesi e Mazzarino, in Provincia di Caltanissetta, e affidato a un vecchio mafioso. Per la prima volta si parla di un testo scritto. Un testo che hanno a lungo cercato ma che non è mai stato trovato. La seconda eccezione è legata alle vicende di Bernardo Provenzano. Durante il periodo della sua latitanza, gli inquirenti iniziano a utilizzare tecnologie sofisticate, dalle microspie alle intercettazioni telefoniche. Allora i mafiosi cambiano strategia, cominciano a scrivere i famosi pizzini, molti dei quali poi ritrovati in seguito alla cattura di Provenzano. Per la prima volta troviamo dei documenti scritti della mafia. Poi negli anni successivi aumenteranno i ritrovamenti di questo genere di materiale, come dimostrato anche dal caso di Messina Denaro.

E in questa dinamica, quale è il ruolo della donna all’interno della famiglia e della cultura mafiosa?
Il ruolo della donna dentro Cosa Nostra cambia, come cambia dentro la società. Donne d’onore non ce ne sono e non ce ne sono mai state.
Apparentemente è una società maschilista, quindi solo gli uomini possono essere affiliati. In realtà ci sono due considerazioni da fare. La prima è che le donne all’interno della mafia sanno tutto di quello che accade nella loro famiglia, apparentemente hanno un ruolo passivo, ma conoscono cosa fa il marito, il fratello o il figlio perché sono tutti mafiosi e sono cresciute in un ambiente mafioso. Si sposano sempre tra di loro i mafiosi, per proteggere la loro cultura mafiosa. Secondo, con le grandi retate degli anni Ottanta e Novanta soprattutto, le donne, pur non essendo donne d’onore, spesso con tutti i mariti, i figli e i padri arrestati hanno preso in mano gli affari della famiglia. Sono diventate prestanome dei loro uomini e sono diventate anche portatrici di messaggi dal carcere a fuori. Il ruolo è quindi cambiato molto. Ma c’è un discorso culturale da fare, la donna è meno conservatrice dell’uomo, così come nella società.
Faccio alcuni esempi. Spesso dietro ogni grande pentimento, c’è l’amore, c’è una donna. Nel caso di Giuseppe Calderone, uno dei veri grandi pentiti, fratello del capo della commissione regionale Antonino Calderone, è una donna, la moglie, che lo spinge a pentirsi confrontandosi con l’allora capo del servizio di polizia criminale Antonio Manganelli, poi divenuto capo della Polizia. Un altro caso interessante è quello di Francesco Marino Mannoia, il primo dei corleonesi pentiti. Era sposato con Rosa Vernengo, famiglia di mafia, ma si innamora di una ragazza che non centra niente con la mafia. E lei che lo spinge a pentirsi, è l’amore per questa donna a motivarlo. E la storia di un uomo che sceglie la vita al posto della morte, l’amore al posto degli orrori di Cosa Nostra. Dietro ogni grande pentimento c’è spesso una figura femminile. Quindi, da una parte le donne hanno un ruolo centrale, prendono le redini della famiglia mafiosa quando gli uomini sono impossibilitati, dall’altra sono il motore del cambiamento all’interno della società mafiosa.

In un contesto in cui la mafia è cambiata così tanto, si è internazionalizzata, si è finanziarizzata, conta ancora così tanto il rapporto con il territorio? Il mafioso di oggi
sente ancora forte la sua identità territoriale?

La caratteristica della mafia, soprattutto di quella siciliana, è di cambiare sempre rimanendo sé stessa. È un paradosso, ma la mafia è così, cambia abito, cambia persino pelle, ma rimane sempre sé stessa. E uno dei legami più forti rimane quello tra l’associazione mafiosa, il mafioso e il territorio d’origine. La forza sul territorio è tutto, e la mafia lo coltiva in molti modi diversi. Prendiamo il caso delle attività di estorsione. Vengono considerate spesso attività minori, in realtà rappresentano uno strumento essenziale per la mafia, perché attraverso il pizzo la mafia si manifesta all’esterno, impone la propria sovranità. Non è solo una questione economica, quindi, è uno strumento politico e culturale con il quale la mafia manifesta la propria sovranità sul territorio.

L’altro aspetto molto interessante è quello identitario. Qui faccio un altro esempio, penso alla “ndrangheta. Sull’Aspromonte, in Calabria, si trova la piccola grande capitale di mafia che è Plati. Da più di cinquant’anni li si scannano due famiglie di “ndrangheta disposte sul territorio ai due lati del fiume che passa vicino alla città. Da un lato i Pelle-Vottari e dall’altro i Nirta-Strangio, una faida sanguinosa impressa geograficamente nella zona. La cosa curiosa è che quando queste famiglie mafiose emigrano a Duisburg, in Germania, espandendo i loro affari e internazionalizzandosi, non solo continuano a scannarsi, ma ripropongono lo stesso schema geografico: sulla destra del Reno si posizionano i Pelle-Vottari, e sulla sinistra i Nirta-Strangio. Questo per dire che l’identità territoriale conta ancora molto per i mafiosi e per la forza delle loro associazioni.

Siamo passati dai mafiosi visibili, con un volto e un nome, a oggi dove nel dibattito pubblico non compare nulla. L’ultimo grande nome era Messina Denaro. Quanto è importante l’aspetto del racconto delle mafie?
Per un giornalista la mafia che non spara e non uccide è più difficile da raccontare. I mafiosi di oggi non mettono bombe e non ammazzano magistrati, anzi li frequentano insieme ad avvocati, giornalisti, politici. È tutto più complesso. E ci sono due importanti considerazioni da fare. La prima è che quarant’anni fa, quando cominciavo a lavorare io, cera molta più libertà di informazione, avevo la possibilità di scrivere di più. C’è stato un restringimento degli spazi di libertà in Italia su questi temi. Prendiamo ad esempio le fiction, che rappresentano uno dei mezzi di informazione più importante. Dall’inizio degli anni Ottanta per diversi anni sul primo canale della rete pubblica nazionale andava in onda in prima serata una fiction dal titolo La piovra. Si parlava della mafia, della violenza, e dei rapporti con il mondo della finanza e della politica. Poi Berlusconi, sostenendo che La piovra danneggiava l’immagine dell’Italia nel mondo, riuscì a bloccarla. Oggi contenuti di questo genere non li metterebbero mai al centro del palinsesto. Quando si tratta di questi temi, le fiction sono edulcorate e molto politicamente corrette.

La seconda considerazione è che si tende a raccontare la mafia in superficie. Il cattivo lo puoi sempre distruggere, puoi farci 12mila pagine. Ma quanta gente ha scritto del caso Montante in Italia?
Alcuni giornali non hanno scritto nemmeno dopo le condanne in primo grado dei personaggi coinvolti. È un modo di affrontare la vicenda che ti catapulta inesorabilmente nel passato. C’è un’aria di complicità, di omertà, di silenzio tipica degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, prima che arrivassero i corleonesi a fare tutti quei morti e ad attirare l’attenzione. Siamo tornati alle origini. I problemi culturali di cui abbiamo parlato prima si estendono anche, e principalmente, alla dimensione della comunicazione e della narrazione. Oggi la vera immagine della mafia è questa:” non esiste”.

Per concludere e fare una sintesi, come si affronta un fenomeno come la mafia in un Paese come l’Italia?
Voglio di nuovo citare il dottor Falcone, perché non c’è mai stata la volontà di capire davvero la sua grandezza. Se uno studia bene, senza retorica, i provvedimenti di legge, i suoi interventi, capisce non solo il genio dal punto di vista tecnico e professionale, ma anche la ricchezza culturale dell’uomo, l’intelligenza, l’umanità. Questo sapere però non va banalizzato. Non basta avere la foto di Falcone e Borsellino o prendere Matteo Messina Denaro, questi sono alibi.
Serve un investimento serio su cultura, competenze, sapere. Queste sono le armi per impostare un percorso davvero efficace di contrasto alla criminalità mafiosa, puntando all’origine della sua forza. Non è il singolo uomo, il predicatore, che può fare qualcosa da solo, è un problema di crescita collettiva della società. Io non credo alle rivoluzioni e alle urla in piazza, io credo ai percorsi lunghi, faticosi, graduali, ma seri.
Il caso Montante 
Calogero Antonio Montante, detto Antonello, era presidente di Sicindustria e vicepresidente nazionale e delegato per la legalità di Confindustria, in ottimi rapporti con il mondo della politica e dell’economia, una figura centrale nella società siciliana dagli inizi degli anni 2000 fino al 2014, un paladino dell’antimafia. Successivamente si è scoperto che era vicinissimo ai grandi boss di cosa nostra della provincia di Caltanissetta e che era un elemento chiave di un sistema di corruzione e associazione a delinquere, un «architettura per- fetta», come lui stesso l’ha definita, per gestire il potere in Sicilia. Nel 2014 è stato iscritto nel registro degli indagati in un’inchiesta di mafia e nel luglio 2022 è stato condannato in appello per associazione a delinquere. Un’indagine complessa che ha coinvolto esponenti politici di rilievo, forze dell’ordine, imprenditori, società civile. Un’indagine che ha svelato le trame della mafia di oggi, trame che hanno al centro personaggi puliti, e in cui “le facce sconce” sono nell’ombra. La vicenda Montante è poco conosciuta, ma è centrale per capire la trasformazione che ha vissuto la mafia dopo le stragi degli anni Novanta.
Policy advisor e collaboratore parlamentare, ha lavorato nello staff del Segretario nazionale del Partito Democratico tra il 2021 e il 2023. Attualmente lavora presso l’Ufficio di Presidenza del Senato e collabora con la Scuola di Politiche in qualità di coordinatore dei progetti di formazione.





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Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Venezia n. 4/2015 il 21 settembre 2015. ISSN 2611-8548
Editore e responsabile intellettuale: Guido Moltedo. Santa Croce 586, 30135 Venezia (IT)

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