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È a Napoli che Elvira Coda scopre il nuovo spettacolo parigino chiamato “cinemà”. Un imbonitore fa da buttadentro e bastano due soldi per vedere il famoso treno dei fratelli Lumière uscire dal muro. Lei è appena arrivata da Salerno, dove è nata nel 1875, con papà, mamma, fratelli e il peso di non essere ancora sposata a vent’anni suonatissimi, praticamente una garanzia di zitellaggio. E invece proprio nella capitale partenopea conosce Nicola Notari, suo coetaneo, fotografo e illustratore, e la scintilla è immediata. Al momento lei si accontenta di disegnare cappellini e ha messo nel cassetto il diploma da maestra.
Elvira Notari, nata Coda con il marito, Enrico Notari, sposato a Napoli nel 1902 dopo un rapido fidanzamento. Insieme hanno creato la Dora Film. Foto: Fondo Vi6orio MarQnelli/Cineteca di Bologna
«Giorno e notte ho ripensato a quando ci siamo incontrati, voi eravate con vostro padre, per vedere la Passione di Cristo. Eravate bellissima, ricordo ogni dettaglio del vostro viso, il sorriso leggiadro, il vestito elegante» le scrive lui, già perso. Un film religioso fa da sfondo al loro primo sguardo ed è davvero un presagio. Il colpo di fulmine infatti è doppio: amoroso e professionale. Lui è un pittore squattrinato di paesaggi e nature morte, illustratore senza grande fortuna, ma ha un mestiere che gli dà da vivere: «Ogni mattina faccio il giro dei fotografi di Napoli, mi danno pacchi di foto e io me le porto a casa. Mi siedo, col pennello e l’anilina metto il rosa sui volti, il rosso sulle labbra, il verde sulle foglie, il nero e il blu sui vestiti. Mi dà una mano mia sorella Olga. Coloriamo le foto, pagano bene».
Elvira e Nicola si sposano subito, il 25 agosto del 1902. Cinque anni dopo, nel 1907, hanno un laboratorio fotografico e tre bambini, Eduardo, detto Gennariello, Dora e Maria. È Dora a dare il nome all’impresa di famiglia, la Dora Film, dove ciascuno ha il suo ruolo. Lei, Elvira, si è guadagnata il soprannome di marescialla per il suo piglio autorevole: sa farsi rispettare da tutti e i produttori cinematografici hanno bisogno dello studio Notari per colorare a mano, a uno a uno, i fotogrammi.
È l’inizio di una grande avventura raccontata nel libro La figlia del Vesuvio, di Emanuele Coen (SEM), che ha il gran merito di ricordare la figura della prima donna regista del cinema italiano. Perché il laboratorio è solo un punto di partenza, come ci racconta Coen: «Elvira e Nicola si mettono a realizzare cortometraggi destinati a precedere o concludere lo spettacolo. Gli Augurali, brevi filmati che danno al pubblico il benvenuto in sala, lo incuriosiscono e lo mettono a proprio agio, e gli Arrivederci, in cui salutano gli spettatori imprimendo sulla pellicola scene semplici: due scugnizzi che si inseguono, un neonato in culla che fa le smorfie, la passeggiata di dame e galantuomini sul lungo mare Caracciolo. Una nuova corsa all’oro in cui Elvira sforna idee a getto continuo e Nicola è il suo braccio armato, l’operatore alla macchina che trasforma i sogni in realtà».
E anche il sogno di Elvira e Nicola comincia a prendere forma: produrre film in proprio. La sala di montaggio sembra «un laboratorio di sartoria. Paradossalmente la grande novità del secolo, ‘o mbruoglio int’o lenzuolo, l’imbroglio dentro al lenzuolo, poggia sulle capacità delle giovani artigiane assunte a cottimo. Un mestiere manuale, ripetitivo, sottopagato, che richiede una pazienza infinita proprio come il cucito, la decorazione di carte da parati, la pittura di porcellane. Lavori per donne».
Una scena di Napoli sirena della canzone, del 1929. Foto: Fondo Vi6orio MarQnelli/Cineteca di Bologna
Elvira è una donna. Ambiziosa. Fa tutto lei, anche se la Dora film per legge deve essere intestata a Nicola. Nonostante la sua giornata sia spossante, lei trova il tempo per leggere: «i romanzi d’appendice di Carolina Invernizio, Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo, Il piacere di D’Annunzio, Una donna di Sibilla Aleramo. Finché, un bel giorno, arriva la rivelazione: Il ventre di Napoli» racconta Coen. Matilde Serao diventa per Elvira un idolo. È anche una giornalista, la prima donna ad aver fondato e diretto un quotidiano in Italia.
Elvira comincia a girare i suoi film sulle strade: bande di ragazzi che se le danno di santa ragione, una bambina salvata dalle onde, una sartina sedotta da un giovane “bene”: «Elvira racconta la sua Napoli, la città dei bassi e degli scugnizzi, della passione sfrenata e dei tradimenti, delle seduttrici e delle sedotte, delle orfanelle e delle madri, degli omicidi e dei suicidi, della follia. Dà voce agli esclusi e alle emozioni represse, riscatta la miseria degli umili. È per questo che il pubblico si immedesima nei suoi personaggi».
Un momento di “Napoli terra d’amore”, del 1929. L’anno dopo la Dora Film chiuderà, per l’avvento del sonoro e della censura fascista. Foto: Fondo Vi6orio MarQnelli/Cineteca di Bologna
Le interessa soprattutto la vita delle donne. In Medea racconta la storia di una figlia di Maria del brefotrofio dell’Annunziata di Napoli. In Rosa la pazza, un fatto di cronaca. Storie truculente, «fuori dai canoni perbenisti che impongono di restare nei binari dei buoni sentimenti», molto vicine ai sanguigni romanzi d’appendice, fino a pellicole come Il nano rosso, di cui scrive la sceneggiatura e cura il montaggio insieme al marito, dove la protagonista Raffaella, novella Justine, si ritrova alle prese con un perfido nano che lei crede essere suo fratello e che invece, lombrosianamente, è brutto quanto cattivo e bugiardo.
Il cinema di Elvira è muto, ma musicato: la musica è così importante che lei «acquista i diritti di riproduzione cinematografica di tutte le canzoni in gara al festival di Piedigrotta» per poter girare un film basato su quella che ha vinto. Un’idea geniale. La protagonista di È piccerella, tratto dall’omonima canzone di Libero Bovio, è la procace professoressa di matematica del figlio, ingaggiata come attrice.
Anche Elvira ogni tanto passa dall’altra parte della macchina da presa, e se la cava bene: la recitazione la insegna, anche, suggerendo uno stile intenso, realistico e misurato, molto diverso dalle interpretazioni al limite del caricaturale che vanno per la maggiore con Francesca Bertini e Lyda Borelli.
“N’fama” è un grande successo del 1924. Foto: Fondo Vi6orio MarQnelli/Cineteca di Bologna
La lotta con la censura, che sta a Roma, è costante. Si accaniscono sui dettagli, come certe didascalie osé («Quel bacio l’aveva inteso guizzare come lingua di fiamma per tutta la persona», che scandalo!) ma quel che brucia davvero sono le figure femminili di Ersilia, così diverse dal profilo omologato e aliene dalla visione sessista e patriarcale della società. Con l’avvento del fascismo, le critiche ai suoi film si fanno più circostanziate: in quelle pellicole il Paese non ci fa una bella figura, quindi non possono circolare all’estero, per esempio negli Stati Uniti. Ma ci arrivano lo stesso e piacciono da impazzire nella Little Italy.
Pensare che i suoi film sono fatti in casa: gli interpreti, compresi amici e parenti e soprattutto il figlio Gennariello, diventato una star, «eseguono gli ordini di Elvira, che li vuole naturali. Quando finiscono le riprese prepara da mangiare per la troupe. Dall’elettricista all’attore protagonista tutti brindano al successo del film in un crescendo di bottiglie di Cilento color rosso rubino. Ogni volta la fine delle riprese si trasforma in una festa lunga un giorno intero». Ce ne saranno a decine, di queste feste. Quando Elvira si ritira negli anni Trenta, sopraffatta dai costi del sonoro che non riesce a sostenere, ha una filmografia lunghissima, di oltre 60 lungometraggi.
L’ultima pellicola che la Notari gira è su commissione di una associazione di italiani a New York devoti al patrono del loro paese, Trionfo cristiano: «Gennariello veste i panni di san Pellegrino, con i suoi fratelli di fede predicano i Vangeli e per questo vengono arrestati e torturati». Non manca una femmina fatale che tenta di corrompere il sant’uomo, ma finisce per convertirsi anche lei,mentre il futuro santo e i suoi fratelli vengono puntualmente martirizzati. «Nelle sale italiane è un fiasco, mentre negli Stati Uniti le comunità di origine italiana lo apprezzano».
Anche senza bisogno di troppi santi, quando muore a Cava de’Tirreni il 17 giugno 1946, a 71 anni, la “marescialla” Elvira il suo personale piccolo grande miracolo lo aveva realizzato. Eccome.
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