Una stonatura come quella di Fedez ha suscitato reazioni viscerali, da scuole medie, pur non avendo lui responsabilità dirette. Il pubblico, troppo spesso, non accetta che incidenti come questo siano parte del gioco.
Se cerchi su YouTube “dal vivo senza autotune”, scoprirai la profondità del disprezzo di una parte del pubblico per tutto ciò che non capiscono e che non fa parte del loro mondo. Sotto questa stringa di ricerca si cela un mondo di flop, imbarazzi, figuracce, disastri (il lessico è tutto così, senza mezzi termini) da parte di rapper che in un modo o nell’altro sbagliano con o per o senza l’autotune. Tra le rapstar italiane spicca in particolare Sfera Ebbasta, forse per l’abbondanza di autotune nella sua musica. Ma da oggi anche Fedez è entrato in questo prestigioso canone, grazie alla performance fallimentare di Sexy Shop che è diventata virale online – anche grazie a una serie di titoli male informati, che parlavano di “senza autotune”. Ma del resto non serve una formazione musicale per capire che qualcosa è andato molto storto, eppure un po’ di contesto può aiutare per farsi un’idea migliore e uscirne più consapevoli.
I trucchi per la voce, dai Beatles all’autotune
Intanto, cos’è “autotune”? Per antonomasia e per estensione intendiamo un software in grado di correggere un’intonazione, cioè modificare – tra le altre caratteristiche – la nota che di volta in volta viene toccata da una traccia vocale. Si parla, in questi casi, di “pitch correction”, perché il programma è in grado (anche in diretta) di ricevere l’input audio di una voce umana e risintetizzarla cambiandone timbro, formante (il suo “aspetto”, diremmo) e tonalità in base alle esigenze dell’artista e del produttore. Trucchi di questo genere sono sempre esistiti: i Beatles usavano il cosiddetto varispeed per modificare la tonalità di una traccia (vocale o strumentale) alterandone la velocità – per esempio, in Lucy In The Sky With Diamonds – sia per trovare arrangiamenti più consoni, sia per approfittare del lieve tocco surreale di questo artificio, in questo senso davvero un autotune ante litteram.
Il primo Auto-Tune e il caso di Cher
Nel 1997, però, l’azienda Antares introduce sul mercato il software eponimo Auto-Tune pensato soprattutto per correggere le stonature in modo più rapido e preciso, senza bisogno di occupare altro tempo dispendioso negli studi di registrazione (sapete, quei luoghi mitologici in cui un tempo, prima degli home-studio, si andavano a incidere i dischi). Applicando una matematica sviluppata originariamente per trovare i pozzi petroliferi subacquei, Antares creò un programma pensato per aiutare i produttori e ridurre i costi, senza tradire la naturalezza del canto: infatti, il programma contiene fin da principio un settaggio (retune speed) che regola la velocità con cui la nota sbagliata viene corretta, creando un effetto microscopico di glissing tipico di qualsiasi voce che si corregge da sola “trovando” la nota. Impostando quel settaggio su zero, le imperfezioni tra una nota e l’altra vengono completamente annichilite e la voce viene meccanicamente fatta saltare da un tono all’altro: è così che nel 1998 sorse l’effetto “robotico” della voce di Cher nella super-hit Believe, ed è così che – come avrebbe detto il più importante critico musicale vivente, Simon Reynolds – il pop fu rivoluzionato per sempre. Perché quell’effetto innaturale, abbracciato presto da una schiera di artisti specialmente (ma non solo) in ambito rap e urban, finì per definire gradualmente il nuovo secolo, e in particolare gli ultimi 15 anni di produzione hip-hop, definendone la timbrica e il carattere più o meno con lo stesso impatto del giradischi o della drum machine Roland TR-808. Tutt’oggi molti produttori potrebbero dirvi che in realtà i programmi di pitch-correction svolgono ancora molto spesso la funzione originaria, cioè la correzione degli “errori”. Auto-Tune, o i suoi successori creati da altri aziende come Melodyne e OVox, sono ovunque: anche se non riconosciamo il particolare effetto alienante che immediatamente associamo all’autotune, possiamo forse notare come molte produzioni propriamente pop siano contraddistinte da voci estremamente pulite, al limite della surrealtà.
Cosa si aspetta il pubblico e perché succede il caso Fedez
Non deve scandalizzare: i cantanti hanno sempre usato trucchi per ottenere risultati migliori di quanto la natura o l’esercizio non concedesse loro – abbondando con il riverbero, ad esempio. Parte di queste rilavorazioni del suono potevano verificarsi dal vivo già “ai tempi d’oro”, quando le voci erano voci e le band saltavano i fossi per il lungo: i mixer live e i banchi effetti non sono un’invenzione astrusa e futuristica. Insomma, la tecnologia è sempre venuta incontro alle necessità di chi sul palco o in studio desiderasse esprimersi oltre le proprie possibilità naturali. Non parliamo di belcanto e opera lirica, ma di pop e rock, musica profondamente influenzata dalla tecnologia: per dirla breve, se salta la corrente, non si canta. Oltre a questi orizzonti tecnici invalicabili c’è un aspetto culturale ed estetico che pare aver preso il sopravvento negli ultimi 20 anni ma che già dalla fine del secolo scorso cominciava a farsi largo: il pubblico – pare – preferisce sentire dal vivo qualcosa di molto simile a ciò che hanno sentito su Spotify (“suona come il disco!”) piuttosto che aspettarsi un evento effimero e unico, anche nelle sue eventuali imperfezioni, e sicuramente nelle sue variazioni imperscrutabili. E allora, se la gara è all’imitazione dello studio, la tecnologia ha molto lavoro da svolgere dietro e davanti le quinte. Ed è così che capitano i pasticci come quello di Fedez.
Come ha detto lo stesso artista, spiegando nelle Storie di Instagram il motivo dell’incidente, la base della canzone (che scorre su una traccia) e il suo cantato (che scorre su un’altra traccia, dove viene “applicato” l’effetto di auto-tune) non erano nella stessa tonalità: il beat era sull’originale tonalità di La minore (o Do maggiore), mentre a sentire la registrazione live mi pare di poter dire che il programma fosse impostato un semitono più in alto (La diesis minore, o Do diesis). Il contatto tra due melodie su tonalità separate da un solo semitono crea una dissonanza evidente a tutti, anche senza preparazione musicale. basta suonare contemporaneamente due tasti “vicini” del pianoforte per sentirla. L’errore è evidente, e potrebbe essere causato da una banalissima svista, magari la rotella del “retune” (re-intona) che è stata spinta di una tacca più in là del dovuto. D’altronde, lo stacco tra la strofa rappata virtualmente priva di informazioni tonali e il pre-ritornello (“staseeera”) dimostra che è proprio qui il problema, non in una defaillance vocale di Fedez.
Cosa è successo a Fedez
Insomma, non è che Fedez non sappia cantare: è che un errore tecnico ha reso impossibile la sua performance, come la rottura di un pedale Boss DS-1 avrebbe impedito a Kurt Cobain di stracciare le distorsioni di Smells Like Teen Spirit, o la rottura di una corda del suo violoncello avrebbe impedito a Yo-Yo Ma di suonare all’insediamento di Barack Obama nel 2009 – poco male, perché era in playback a causa dell’eccessivo freddo. Ci potremmo pure chiedere se sia opportuno che un artista di alto rango pop in Italia come Fedez possa permettersi certi errori; o se eventi di alto profilo e talvolta ad alto costo di ingresso (non nel caso del Festival Amunì di Torrenova, che era gratis per il pubblico) possano tollerare certi intoppi; se proprio non riusciamo a concepire che anche le grandi macchine organizzative sono comunque composte da esseri umani, se proprio concepiamo tutto lo scambio dell’evento musicale come una transazione economica, certo, potremmo interrogarci così. Ma noi non ci poniamo queste domande, e invitiamo chi lo fa a limitarsi ad ascoltare i dischi e non andare più ai concerti.
Tuttavia, un moderato grado di lamentela è concepibile: nessuno è contento di andare al cinema a vedere un film proiettato fuori fuoco. A queste persone, se sono disposte a ragionare, diciamo questo: la musica che amate è frutto di grandi compromessi tecnologici, e non esisterebbe senza di essi; vi piace per come suona, perché “spinge”, ma questa spinta ha dei costi, tra cui il prezzo di eventuali incidenti tecnici; incidenti che statisticamente diventano più probabili se ascoltate un artista molto popolare, la cui richiesta sul mercato è molto alta e che quindi suona molto spesso (prima di Torrenova, Fedez si era esibito già due volte quel giorno stesso, secondo la sua testimonianza). Insomma, vedete da soli che i possibili punti di frattura sono parecchi: la vostra musica preferita (o comunque quella che siete disposti a sentire a un concerto gratis estivo) ha i piedi fragili, e neppure gli artisti più forti e dotati di mezzi sono al sicuro, come i molteplici pasticci di Sfera Ebbasta dimostrano – se ne parlava giusto un’estate fa.
Ma se, comunque, le strazianti stonature involontarie da fail dell’autotune vi strapazzano, non è colpa vostra: la voce umana è un canale direttissimo di empatia, è lo strumento attraverso il quale ci conosciamo a vicenda; si potrebbe dire, anzi, che molte persone disprezzano l’autotune proprio perché modifica il suono di una persona e lo rende irreale, quasi si entrasse in una “uncanny valley” in cui l’eccessiva perfezione del simulacro umano ne rivela l’inganno sottostante, scatenando reazioni di rifiuto categorico. Una stonatura come quella del concerto di Fedez suscita reazioni viscerali: la sua estrema dissonanza insieme con l’estetica sonora dell’autotune risulta talmente aliena da allarmare – e poi non ditemi che l’armonia è una faccenda solo accademica. E così, l’insulto e lo scherno sembrano conseguire inevitabilmente: sarebbero questi i grandi artisti che non suonano la chitarra o la batteria, ma in compenso suonano l’autotune? Questa è la loro competenza con lo strumento che dà loro da mangiare? Già, meritiamo artisti migliori. Ma anche un pubblico generalista che non si lasci trascinare dentro le polemiche e si scrolli di dosso l’errore: anche gli dei della chitarra sbagliano.
Quindi, propongo modestamente due soluzioni alternative agli spettatori e ai loro beniamini, affinché in futuro non capitino più incidenti tanto incresciosi. La prima è accettare che gli spettacoli siano completamente in playback, senza alcun apporto musicale dal vivo: l’artista contribuisce aggiungendo solo la sua presenza corporea e il pubblico vede esaudito il desiderio di una cosa “proprio come il disco” e completamente priva di intoppi – per quanto esista il rischio che possa incepparsi il CD (scusate il boomerismo). La seconda soluzione è dedicarsi a una musica meno esposta a errori di questo genere: avete provato il country? Magari il canto a tenore? Eppure esiste, nascosta in un angolo, una terza via: accettare che incidenti anche imbarazzanti come questo siano parte del gioco e abbandonare le reazioni da bulli delle scuole medie. Non perché i Fedez del mondo non abbiano le spalle abbastanza grosse per sopportarli, anzi. Ma perché la qualità delle nostre conversazioni musicali ne migliorerebbe di molto. E magari, anche i nostri ascolti.
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