Maria Monti, la prima cantautrice italiana: «Con Gaber fu un amore travolgente. A Sanremo arrivammo ultimi. Poi andai in India a cercare me stessa»


diPaolo Robaudi

Maria ha 88 anni, oggi vive nella casa di riposo per artisti «Giuseppe Verdi»:  «Dalla era un mio fan, Jannacci un grande amico»

Ha cantato con Giorgio Gaber – con cui ha avuto una storia d’amore giovanile indimenticabile – Enzo Jannacci e Lucio Dalla, a teatro ha recitato con Dario Fo, Paolo Poli, Carmelo Bene e Giovanni Testori, al cinema con Sergio Leone, Bernardo Bertolucci e Bolognini. Una carriera incredibile quella di Maria Monti, 88 anni di cui 51 sotto i riflettori, dall’esordio in televisione nel ’54 con Enzo Tortora e Silvana Pampanini al festival di Sanremo nel ’61 con Gaber, da “Studio Uno” nel ’66 al disco registrato con i giovani Lucio Dalla, Francesco De Gregori e Antonello Venditti nel ’74. Variando sempre tra i vari registri dell’interpretazione: dal drammatico all’ironico, fino al più impegnato. Tutto questo tra film che fecero scandalo e canzoni censurate.

Prima cantautrice italiana, prima artista a interessarsi della musica popolare, prima a incidere le canzoni politiche e quelle della mala: il suo modo di stare in scena ha influenzato almeno un paio di generazioni di artisti. Ha costruito la sua carriera inseguendo la libertà artistica e personale, in un mondo che non era certo a misura di donna.
 
Oggi vive nella Casa di riposo per artisti «Giuseppe Verdi», un unicum in Italia, voluta da Verdi in persona per ospitare i musicisti anziani: ospita 60 pensionati e 15 meritevoli studenti del Conservatorio. Gli occhi di Maria Monti sono quelli di una volta, lo sguardo magnetico esprime la vitalità di un’artista eclettica e di una donna libera e indipendente. 

Qual era il suo quartiere di Milano?
«Sono nata in Brera, precisamente in via Solferino al 24/a, di fianco al Corriere della Sera. Era la casa dove abitava Edoardo Mangiarotti, il pluricampione olimpico di scherma. Mio padre era un dirigente della Texaco: poco dopo la mia nascita, nel 1935, venne mandato a sovrintendere gli uffici di Firenze e noi partimmo con lui. Morì per un’emorragia quando avevo sei anni e mezzo. Papà era un uomo molto gentile. La sera, quando tornava dal lavoro, mi suonava al pianoforte delle canzoni. Quando vidi il feretro, la mia tata mi chiese se fossi triste e io risposi: “No, tanto stasera verrà a cena”. I bambini non si rendono conto di quanto può essere grave un lutto».

L’infanzia però l’ha vissuta in campagna.
«Durante la guerra ci trasferimmo a vivere alla Gabbana, una cascina di nostra proprietà a Cassano d’Adda. Nel bel mezzo della pianura padana, dove tutto è piatto e i campi sono interrotti solo dalla ferrovia. Il nome Gabbana viene da “gabbare”, potare i rami del pioppo. Ho continuato a frequentare quei luoghi anche nel dopoguerra. Lì andavo a scuola: la maestra era severa, parlava in italiano, i figli dei contadini in dialetto e stentavano a capirla. Io traducevo ai compagni quello che lei diceva. Ogni tanto la maestra si infuriava e lanciava verso la classe la sbarra di legno con cui di solito picchiava sulla cattedra: una volta colpì anche me. Poi nel 1945, quando avevo 10 anni, tornammo ad abitare in centro a Milano: mia madre trovò una casa in via Castelfidardo, sempre in zona Solferino».

La prima volta sul palco?
«Fin da piccola volevo fare la cantante. Ma ero timida: così iniziai a cantare al teatro Santa Tecla, ma stavo nel bagno vicino al palcoscenico, in modo che nessuno mi vedesse. Cominciai a recitare proprio per vincere questa mia timidezza. Dal teatro finii in televisione in “Primo applauso”, con Enzo Tortora e Silvana Pampanini, e poi partecipai a “Uno scandalo per Lili”, un musical con Ugo Tognazzi, Lauretta Masiero, Giancarlo Sbragia e Gianrico Tedeschi e le musiche di Lelio Luttazzi».

E l’incontro con Giorgio Gaber come andò?
«Un giorno mi arriva a casa questo ragazzo giovanissimo, mandato da Giorgio Casellato, il suo capo. Avevano bisogno di una cantante per il gruppo: era venuto a valutare se la tonalità della mia voce potesse andar bene. Io avevo 23 anni e lui 20. Fu un colpo di fulmine… Ci ritrovammo fidanzati e a lavorare insieme. Al Teatro Gerolamo, in piazza Beccaria, andavamo in scena con “Il Giorgio e la Maria”, davanti a una sala sempre mezza vuota. In scena con noi c’era anche Jannacci, al piano. Il nostro modo di cantare ironico nasceva dallo spirito di una certa gioventù milanese di allora: canzoni che avevano una radice popolare e che noi interpretavamo a modo nostro. Fu il primo approccio al teatro canzone. E poi nel 1961 Giorgio ed io ci presentammo a Sanremo con “Benzina e cerini”, scritta con Enzo Jannacci e Simonetta. Arrivammo ultimi, ma Umberto Eco ci definì “pionieri della nuova poesia milanese”».

Come finì la storia d’amore con Gaber?
«È stata molto coinvolgente. Io ero innamorata, solo che avevo un’idea dell’amore diversa dalla sua. Non andavo d’accordo con mia madre, avevamo caratteri troppo diversi: sarei stata contenta se lui mi avesse portato via da mia madre. Ma Giorgio era troppo giovane, a questo non ha mai pensato. Siamo stati insieme per tre anni. Venticinque anni più tardi, in un ristorante, dopo un suo spettacolo, disse davanti a tutti: “Ma tu, perché 25 anni fa mi hai mollato?”. Gli risposi: “Ma guarda che io ti amavo…”. Insomma, il mio modo di amare era diverso dal suo. Si meritava l’Ombretta! (Ombretta Colli, ndr). Giorgio è stato l’autore del suo destino, nel bene e nel male. Nel nostro caso il problema è stato l’età e i bisogni diversi. Io poi mi sono fidanzata con il fotografo Mario Dondero. Non è durata tanto però, lui era sempre in giro per il mondo».

Invece Jannacci com’era?
«Era figlio di un aviatore, studiava medicina e faceva il musicista, era anche molto bravo. Un giorno una truccatrice mi disse che sua mamma era curata da un bravissimo cardiologo: Enzo Jannacci. Era uno con due facce pazzesche, uno schizoide con la S maiuscola. Quando veniva a casa mia lasciava la macchina sul marciapiede: non a caso lo chiamavamo “Schizzo”. Eppure in ospedale diventava una persona seria, con i suoi occhiali da dottore. Senz’altro c’era un tacito antagonismo tra il corsaro Gaber e il corsaro Jannacci».

Com’è stato lavorare su set tra i più importanti della storia del cinema?
«Con Bertolucci è stato straordinario, era come tornare bambina alla cascina Gabbana. La realtà e la finzione si toccavano. Ho rivissuto la realtà delle famiglie della pianura lombarda in cui ero cresciuta con “Novecento”, nel quale ero la madre di un giovane Depardieu. La storia del film è poi la stessa che ritrovi in tutto il mio lavoro: sono sempre quei bambini malmenati e umiliati a scuola perché non sapevano l’italiano».

Com’è era lavorare con tutte queste superstar hollywoodiane?
 «Per lo più rapporti professionali, erano persone molto educate. Sono poi i registi che danno l’imprinting sul set. Con Bernardo mi sentivo a casa. Eravamo in Emilia e facevamo enormi tavolate con la troupe. Ovviamente gli stranieri andavano matti per il nostro cibo, imparando così ad amare e a comprendere il nostro Paese, la nostra gente. Anche con Sergio Leone non andò male».
 
I giovani Depardieu e De Niro, com’erano?
«Erano giovani e belli entrambi. Molto simili, ognuno nel suo genere: due giovanotti sui 23 anni, pieni di vita, e poi con la cucina emiliana facevano eccellenti mangiate. Erano felici. Depardieu però veniva da una situazione difficile, si vedeva».

Ha fatto poi il film “Vermisat”… 
«In quel film ho fatto la prostituta. È ambientato a Milano, vista come una città lunare. L’opera prima del regista Mario Brenta. Un film particolare, sofferto. Una storia di emarginazione».

E poi il teatro: Dario Fo, Bramieri, Carmelo Bene, Testori…
«TTestori è quello che mi è rimasto di più nel cuore. Il suo modo di raccontare Milano, le luci e le ombre. L’intuizione geniale di fare Shakespeare in milanese, “l’Ambleto», al Salone Pierlombardo. Chissà se l’Andrée (Andrée Ruth Shammah, ndr) lo fa ancora… Invece Luca Ronconi, a Roma, mi bocciò. Mi trattò come fossi una “scalzacagnetta”: così mi fece sentire. E poi lavorai con Dario Fo, “L’opera dello sghignazzo”. Durante le prove Franca Rame stava dietro le quinte. Quando vedeva qualcosa che non andava usciva e dava consigli al Dario, ma lui non l’ascoltava mai: lui improvvisava. Eravamo molto amiche, io e Franca Rame. Paolo Poli poi era scoppiettante. Infilava sempre l’umorismo in ogni suo giudizio».

Ha fatto anche un disco con Dalla, De Gregori e Venditti?
«Ma quello è successo per caso. Eravamo alla Festa dell’Unità di Bologna, era estate, c’erano Micocci e Melis, i boss della Rca: registrarono e fecero il disco. In seguito andai in televisione, in un programma con Dalla, e insieme cantammo “La Balilla”. Lucio Dalla era un mio ammiratore».

Come mai a un certo punto è sparita dalle scene?
«Ho avuto la fortuna di vivere in un momento storico del Paese straordinario, e così è stato anche nel lavoro. Sono andata a vivere a Roma, ci ho vissuto per 30 anni, ma per sei mesi all’anno stavo in India, da ottobre a Pasqua. Andavo nella città fondata dal guru Sri Aurobindo e dalla sua compagna Mirra Alfassa, detta “la Mére”, la madre. Lui aveva conosciuto Gandhi ed era stato imprigionato dagli inglesi: una volta rilasciato era scappato nel Tamil, zona francese, così gli inglesi non potevano più perseguitarlo, e aveva fondato la città di Auroville per aiutare chi era sfiduciato dal modello di vita consumistico e voleva vivere libero dai pregiudizi. Io lì ho riscoperto me stessa tramite la meditazione».

La canzone «Chiedo scusa se parlo di Maria» di Gaber si riferiva a lei?
«Bisognerebbe chiederlo a lui. Io ho sempre avuto il sospetto che fosse dedicata alla nostra storia».

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13 gennaio 2024 ( modifica il 13 gennaio 2024 | 09:24)



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