l’infanzia, il matrimonio da sogno, Sanremo, gli amici Dalla e Jovanotti. Storia dell’eterno ragazzo (ora star dei social)


Non è tanto la paura di morire, dice lui, quanto quella di svaporare, di non ricordare più, di rincoglionire tout court. L’uomo che visse due, ma forse pure tre volte compie domani ottant’anni, e già sembra impossibile. Gianni Morandi, l’eterno ragazzo, quello che da più di una dozzina di lustri implora l’amata di farsi mandare dalla mamma a prendere il latte («Me la canteranno anche al funerale…»), ha un baule di ricordi che la metà basterebbero a scrivere la storia di questo Paese dalla fine della guerra ad oggi. Già la nascita è un’avventura. All’alba dell’11 dicembre del 1944, sotto una delle nevicate più epocali dell’intero Novecento, con nazisti e sgherri fascisti in fuga a caccia di partigiani sull’Appennino. Della levatrice non c’è traccia, così se la sbrigano nonna e bisnonna, che allora i bambini spuntavano al mondo come agnellini, così, quasi da soli. 

LE ORIGINI

L’infanzia lassù a Monghidoro, trenta chilometri che sembrano trecento da Bologna, il talentino della voce, i bruscolini venduti al cinema del paese (riapre oggi), la bottega del papà ciabattino tornato vivo dall’Albania, l’Unità e Marx, Karl mica Groucho. Generazione di fenomeni, ore di corriera per arrampicarsi fino a casa, gavetta tanta, lacrime e rimpianti quasi mai. All’improvviso, Roma. Per una volta Pinocchio non incontra il Gatto e la Volpe, ma qualcuno che gli procura un contatto alla RCA che sta setacciando il pianeta a caccia di facce e voci pulite. È perfetto, a Londra i Beatles stanno capovolgendo i parametri generazionali, lui non ha nemmeno diciott’anni, ciondola come un cammellone, ha due mani come pale per la pizza, ma è perfetto e regge l’urto. Con Mina, la Pavone e Celentano è il nuovo che avanza, la tv sta finalmente ricucendo gli strappi nel Paese un secolo dopo l’Unità, Roma è una delle capitali dell’universo, per una foto sui giornali divi ed aspiranti tali farebbero follie. È la Dolce Vita. Gianni ha una qualità straordinaria: è curioso ed è una spugna, assorbe qualunque stimolo. Gira alla larga da Sanremo, roba da matusa, adora le votazioni plebiscitarie, Cantagiro e Canzonissima in testa. Lo costruiscono rivale di Claudio Villa, poi di Massimo Ranieri. Ha solo la quinta elementare ma bazzica Pasolini grazie all’amato pallone, le avanguardie sul Tevere, autori e musicisti del calibro di Morricone, attori, registi, scrittori… Quando provano a censurarlo, perché C’era un ragazzo non è adatta a lui, perché lascia stare la guerra, lui se la cuce addosso, s’inventa quel “tattà-tta-tattà” che diventerà un mantra, travolge tutto e tutti. Laura Efrikian, il matrimonio più da sogno del decennio, il servizio militare, i musicarelli, i successi, sipario, fine della prima vita. Scena due, il buio. Il mondo gira e rigira, il Sessantotto, l’Autunno caldo, le bombe di Milano e Brescia, gli anni di piombo… Di colpo Morandi è fuori ritmo, asincrono rispetto ad una narrazione totalmente diversa, le sue canzoni sembrano preistoria. 
Lui che è veramente cresciuto nel brodo del Pci sembra il reazionario. «Il telefono non squillava più» ricorda. A salvarlo, due o tre assi nella manica, che nemmeno sapeva di avere. Intanto quella faccia piace ai registi, è viva, imperfetta, mobile, vera, espressiva. E lui ha fama di essere uno perbene, disposto ad ascoltare e se serve studiare, non ha cadaveri nell’armadio. Dunque un po’ di cinema, nemmeno a livelli infimi, è l’uomo giusto quando la Rai comincia a cercare volti moderni per le fiction dell’epoca, recitazioni meno da accademia e più da strada. E il conservatorio, per uno che non ha nemmeno la licenza media. Disciplina, applicazione, voglia di ricominciare ma anche di sapere, di scoprire, di smontare l’orologio per guardare dentro il meccanismo: «Cantavo le parole, ho imparato a cantare la musica». È talmente outsider ormai che torna in classifica con una canzoncina per bambini, Sei forte papà, che infila come un guanto, impeccabilmente. Altro jolly: «Ma tu giochi ancora a calcio?», gli telefona Mogol. Nasce la Nazionale Cantanti, e lui ha fatto una vita da mediano, da gregario pronto ad infilarsi nella sfida giusta, senza mai rosicare per i campioni che non sembrano fare fatica. Seconda domanda: «Ma canti ancora? Allora dimentica di essere Gianni Morandi, che se ti riconoscono siamo rovinati…». Uno su mille ce la fa, lui ovviamente ce la fa. Ricomincia da dove non ha mai cominciato, teatrini, robetta di periferia, qualche centinaio di fan nostalgici. Sanremo, una volta tanto, e sì che si può dare di più, con Ruggeri e Tozzi. E Lucio, una scelta che pare una pazzia, Dalla lo sbranerà dicono. Nemmeno per errore: disco fatto con cura e amore, tour da leggenda, di nuovo in sella senza mai montarsi la testa, pedalando a testa alta. Poi da solo, col tendone da montare e smontare nelle piazze e le briscole da giocare in camerino coi vecchi fan diventati amici, un nuovo grande amore, Anna, che gli regala voglia di rimettere radici. Sanremo da direttore strategico, capitano coraggioso con Baglioni, i social dove imperversa come un nonno 2.0, adesso Jovanotti e forse se ne poteva fare a meno. 

IL FIGLIO

Ma a lui l’Italia perdona tutto, e lui francamente se n’è sempre infischiato di quel che pensano quelli che benpensano. Il compleanno a Lisbona col Bologna, è stato persino presidente di garanzia, trasferta Champions («Ero all’Olimpico per l’ultimo scudetto nel ’64»), e venerdì un album, L’attrazione, vecchia roba riciclata a duetto, uno col figlio rapper, più l’inedito jovanottiano e una versione di C’era un ragazzo cantata con parenti e amici. Dicono che passerà di nuovo da Sanremo, si agiterà ancora come l’ultima volta. «Non sono un autore e non ho nemmeno tutta ‘sta voce, mi è andata bene… Ho cantato più di cinquecento canzoni, molte erano così così, la maggior parte teneva botta, una dozzina erano tonde e perfette…». Auguri Gianni, se è mai esistito un Forrest Gump italiano, quello sei tu. Non smettere mai di correre.

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